Le risposte alla paura non sono la speranza o l’ottimismo, ma il coraggio.
La speranza, dice Aristotele, è la disposizione d’animo tendente a un bene: non presente ma futuro, non facile ma arduo, e tuttavia possibile da conseguire. Ma con quale comportamento? La speranza è sentimento, non azione.
L’ottimismo è un’attitudine psicologica a prevedere e giudicare favorevolmente il corso delle cose. Locuzioni, quale «andrà tutto bene» e e gestualità divenute iconiche, tipiche dell’individualismo ottimista e meritocratico della cultura americana.
Dalla paura la possibilità della riprogrammazione con il coraggio. La paura è lo stato d’animo che si instaura per la possibilità della perdita. Il dolore scaturisce dall’iniziazione alla perdita e alla precarietà del mondo: quello e chi c’era una volta è più possibile di prima che non ci sia più. Non ci si difende né con l’amnesia né con l’anestesia. La risposta alla paura è il coraggio che sostiene il dolore per la possibile perdita di ciò che amiamo e per il rifiuto di ciò che di noi non amiamo. E poi crea le strategie, come Odisseo/Ulisse. Un eroe, un mito per il coraggio: torna da congedato a casa e ciò che vede è solo perdita. Programma una strategia di riappropriazione fondata sull’alleanza con Telemaco, la giovane generazione e la sintonia con le anime semplici: i suoi famigli e il suo cane.
Un counseling per il coraggio dice: «Non è vero che va tutto bene; e non sappiamo con certezza se andrà tutto bene; eppure ce la mettiamo tutta.» Parte dal pessimismo, perché la soluzione del problema non è legata solo alla nostra persona, nonostante la buona volontà. Abbiamo consapevolezza che sono possibili due sistemi metrici di misurazione della soluzione: oggettivo (si affronta con la ragione); soggettivo (volontà, non misura i confini).