Nella pandemia, il counseling da remoto
Ci sono delle suggestioni interessanti emerse da questa esperienza forzata? Nelle sessioni virtuali avvengono degli spostamenti sensori rispetto a quelle frontali: dall’assenza di interazione di campo fisico e dalla percezione di un contesto condiviso, alla congiunzione fra universi lontani. Operatore e cliente sono collocati in un diverso contesto. Come ambientano ognuno di loro la propria presenza corporea? Possiamo ritenere lo sfondo come una metafora della persona? Anche quando lo sfondo diventa virtuale, fornito dalla piattaforma?
Il punto centrale della questione è che la tecnologia stessa è corpo, poiché, come spesso avviene, inquadra solo il viso e porta in primo piano alcuni particolari e movimenti, e se c’è uno spostamento nella sorgente del suono dallo schermo agli auricolari, se la tecnologia che l’operatore o il cliente usa è zoppicante, imprecisa, e non all’altezza della comunicazione.
Un paradosso, nel counseling via web. Nel counseling da remoto c’è un paradosso che va esplorato e valorizzato. Per esempio: cosa intendiamo per contatto e remoto? La seduta in presenza è una situazione bottom-up: un processo di sintesi, che raduna con immediatezza gli elementi di base visivi, uditivi, olfattivi in un sistema complesso; la seduta per web è una procedura top-down, perché scompone gli interlocutori ripetutamente dal modello generale che ne avevamo nelle sue componenti sensoriali parziali ed elementari. Ne risulta uno sguardo incarnato, l’opportunità di creare una retroazione positiva tra bottom-up e top-down operata dalla parola che può fecondamente produrre una nuova empatia fra operatore e cliente.