Perché è importante narrare sé stessi.
Ognuno di noi, spesso inconsapevolmente, costruisce una narrazione della propria esistenza, seguendo il tracciato di un racconto più o meno avventuroso, nel quale si è protagonisti con un ruolo specifico. Questo racconto è l’intreccio che rende sensata, comprensibile e comunicabile la propria avventura esistenziale. Ma che succede quando si crede giunto il momento di riprogrammare quel racconto? Oppure si ritiene che il ruolo finora assunto non abbia più senso? Oppure avvengono vicende che alterano radicalmente la comprensione della parte antecedente del racconto?
Sta nella risposte a queste domande il senso dell’autobiografia come uno dei momenti più intesi ed intimi del fare counseling quando esso diventa self counseling, o infine autobiografia. Il sapersi ascoltare è l’altra faccia del saper ascoltare. Essi sono connessi fra loro da un atteggiamento, l’empatia, e da una competenza, la sensibilità linguistica. Potrebbe sembrare stravagante l’attribuire al sapersi ascoltare un atteggiamento empatico. Ma si rifletta a quante strategie psicologiche si può ricorrere per opporsi alle proprie emozioni, ai ricordi, alle voci della coscienza, si comprende quanto importante sia l’empatia verso il proprio sé, psichico e corporeo. E poi c’è il linguaggio, il veicolo sommo attraverso cui il raccontare compie la sua epifania. Tanto maggiore è la ricchezza dei suoi registri quanta più competenza linguistica aiuta ad avere confidenza con le potenzialità del narrare. Il setting del counseling può essere, perciò, il luogo in cui la persona, soprattutto quella non abituata a parlare di sé, può essere aiutata a raccontarsi e a scoprire, attraverso il racconto, reconditi aspetti di sé stessa. Certo, tutto questo avviene se il/la counselor ha affinato e valorizzato questo aspetto della relazione, anche nella sua forma verbale e non solo nei contenuti.